Rio de Janeiro, Brasile- Perché l’Italia della vela non sa vincere alle Olimpiadi? A questa domanda abbiamo cercato di rispondere questa mattina nel corso dell’incontro tra media e squadra azzurra voluto dal DT Michele Marchesini all’Hotel dove alloggia la squadra azzurra, a dieci minuti a piedi dal Marina da Gloria, quartiere Flamengo.
Lo zero medaglie di questa Rio 2016 segue l’analogo risultato di Weymouth 2012, entrambe nella gestione FIV di Carlo Croce ma con evidenti differenze tra i due quadrienni, e se andiamo più indietro, a parte le medaglie frutto di sistemi di preparazione per lo più autonomi di Alessandra Sensini, Luca Devoti e Diego Romero, l’Italia della vela non produce una medaglia dai due bronzi di Dodo Gorla e Alfio Peraboni in Star (1980 e 1984). La serie negativa di due Olimpiadi si era ripetuta già nel 1988-1992 e prima ancora nel 1972-1976. Il medagliere della vela azzurra rimarrà quindi fermo ancora a 3 ori, 3 argenti e 8 bronzi.
Qui a Rio sono state conquistate quattro partecipazioni alla Medal Race (Camboni, Tartaglini, Bissaro-Sicouri e Conti-Clapcich) e in due di esse vi erano fondate speranze di medaglia, con chance addirittura di medaglia d’oro, quel massimo alloro che (windsurf a parte) all’Italia sfugge addirittura dall’Oro dell’ammiraglio Agostino Straulino del 1952. Un’era sportiva fa.
A Weymouth la chance di medaglia se la giocarono Zandonà-Zucchetti in 470, dove furono quarti, qui ce l’hanno avuta Flavia Tartaglini, partita in testa prima della Medal e arrivata sesta, e Vittorio Bissaro e Silvia Sicouri, partiti secondi e arrivati quinti, in attesa del piazzamento di Conti-Clapcich nella Medal di domani, miglior risultato della spedizione azzurra a Rio.
Cosa succede quindi? L’analisi, da quanto abbiamo osservato qui a Rio, riguarda soprattutto la capacità di vivere l’evento Olimpiade con il “furore equilibrato” di chi le medaglie le vince e la gestione della Medal Race decisiva, quella prova finale che in 20 minuti decide le medaglie ed equivale all’ultimo tiro decisivo con la pistola, al rigore calciato al novantesimo, al tiro libero a tempo scaduto con il risultato in parità. Al momento decisivo, quello che i fuoriclasse non sbagliano e i campioni invece possono sbagliare. Le ripetizioni ci sono e sembrano evidenti, e su questo, a nostro parere, il DT Marchesini, i coach e gli atleti in prima persona dovranno lavorare. Tutto l’ambiente deve trasmettere più equilibrio.
Il nostro video dell’incontro con la squadra azzurra:
Il formato della medal race è spietato. Il CIO lo ha voluto per avere un vincitore solo all’ultimo giorno e, in World Sailing autorevoli pareri (tra cui quello assai carismatico di Santiago Lange, espresso ieri sera nella conferenza stampa post Oro) sembrano iniziare a metterlo in discussione. Ma, a oggi, quello è il formato e non ha alcun senso dire con i se… o i ma… che tale prova suprema è ingiusta. Intendiamoci, le regate olimpiche di Vittorio Bissaro e Silvia Sicouri nei Nacra e di Flavia Tartaglini negli RS:X sono state ottime, confermando gli splendidi quadrienni dei due equipaggi e l’appartenenza alla primissima fascia mondiale nelle rispettive classi. “Quattro anni fa non facevamo vela olimpica ed eravamo praticamente dei dilettanti, adesso ieri ci siamo giocati l’Oro olimpico”, ha detto opportunamente Vittorio Bissaro. Diverso il discorso su Giulia Conti e Francesca Clapcich, su cui converrà tornare a parte.
Qui stiamo analizzando un evento, l’Olimpiade, e un suo momento, la medal race finale, che per loro definizione non hanno nulla a che vedere con Mondiali, Europei e infinite regate che si disputano, contro gli stessi avversari, in tutto il mondo. La capacità di dare il meglio nell’unico momento in cui conta, in cui non c’è domani. Il “Killer Istinct” di cui sono dotati i grandissimi della vela e che ai nostri spesso è mancato. Per provarci, intendiamoci, bisogna esserci. Lassù, in cima all’enorme piramide olimpica, le vertigini non mancano e le correnti d’aria sono intense. Una volta arrivatici, con merito e qualità, solo uno riuscirà a farcela e ciò avviene solo una volta ogni quattro anni. Spietata e autentica, l’Olimpiade rende davvero simili agli dei per un giorno, cosa che i mondiali, magari anche più difficili tecnicamente da vincere contro flotte ben più cospicue, non fanno. Ci piacerebbe che i bravi ragazzi della squadra azzurra riflettessero a fondo su questo punto, cosa che già di per sé rappresenta una presa di coscienza. L’Olimpiade non è una regata come le altre. Le pressioni e l’attenzione, l’immedesimazione emotiva del tifo e di tutti gli attori coinvolti, sono imparagonabili agli altri eventi. E pensarlo significa ingannare se stessi.
Lo ha spiegato molto bene Alessandra Sensini questa mattina. Lei che di Olimpiadi ne ha fatte sei e ne ha vinte quattro, ha invitato gli azzurri a impegnarsi ancora, a far tesoro dell’esperienza e positivamente a “capire” l’Olimpiade. Questo l’audio del suo intervento:
Questa la risposta di Ruggero Tita (timoniere del 49er azzurro) alla domanda su cos’è l’Olimpiade:
La tensione presuppone un equilibrio, che è il contrario di quell’eccitazione di cui ci è parsa per esempio vittima la Conti. L’equilibrio porta a concentrare ogni singola goccia di liquido neuronale agonistico nella regata, senza alcuna dispersione in fattori esterni. La tranquillità dell’ambiente, la positività di coach e dirigenti, la mancanza di pressioni da parte di persone che vogliono “apparire”, persino l’abbandono degli smart phone e dei social o evitare i famigliari sono variabili che nei vincenti si riscontrano quasi sempre. Un problema prima strutturale che tecnico. I velisti italiani sono bravi, sono cresciuti come team e hanno dimostrato nel quadriennio di saper ottenere risultati. Si nota una differenza e una crescita comune, in questo ha ragione il DT Marchesini. Quello che si nota, ancora, invece è una certa mancanza come sistema d’insieme e la gestione Carlo Croce, ultimamente assai preso delle vicende di World Sailing (di cui parleremo a parte), pare non aver contribuito alla tranquillità condivisa. Un problema più “culturale” e di sistema che tecnico.
All’Olimpiade, dicevamo, i migliori dieci si giocano le medaglie in un atto finale, la Medal Race, in cui non c’è domani. Lì sono possibili imprese leggendarie o precipitose cadute. L’emotiva giornata di ieri ha portato due esempi su tutti: Santiago Lange nei Nacra e Tom Burton nei Laser. L’australiano ha deciso di matchare il croato Tonci Stipanovic nel prepartenza con l’obiettivo di farlo partire ultimo accettando di essere penultimo e provare poi a rimontare, barca dopo barca, fino a mettere tra sé e il rivale le barche necessarie per riprendere i punti che li separavano. Ebbene, il suo piano è magnificamente riuscito: penalità inflitta nel prestart e Tonci ultimissimo. Burton inizia a macinare onde e raffiche e, alla fine, riesce addirittura a chiudere terzo la Medal Race con Stipanovic ultimo. Questione di palle, se possiamo scriverlo, ma certo effetto immediato con medaglia d’oro al collo.
La leggenda Santi Lange, poi, ha fatto il giro del mondo. Lange, a 54 anni, è primo ma si becca una penalità in partenza e parte ultimo. Never give up… mai mollare e, confidando nel vento rafficato del campo sotto al Pan di Zucchero, riesce prima ad avvicinarsi e poi a rimontare le barche sufficienti a difendere la prima posizione. A trecento metri dall’arrivo un’altra penalità, che avrebbe ucciso chiunque, ma l’argentino sfrutta ogni singolo millisecondo, ammaina, gira su se stesso, reissa il gennaker e contiene per pochissimi secondi la rimonta delle barche che seguono e va a vincere l’oro per un punto. Apoteosi? Sì. Fortuna? Non ci pare. Semplicemente i migliori riescono a dare il meglio nell’unico momento in cui conta. Reagiscono e decidono alla velocità della luce.
Questo è l’ultimo passo che ancora manca alla squadra azzurra della vela. I ragazzi italiani devono lasciar da parte definitivamente alibi e mammismo, e lo stanno già facendo se non lo hanno già fatto, ed entrare in quella equilibrata dimensione di furore agonistico controllato. Nessuna paura, petto in fuori, sguardo fisso sull’obiettivo e sangue da sputare fino ad azzannare il collo dell’avversario. I grandissimi ci riescono e non è mai un caso che Santi Lange abbia vinto qui la terza medaglia o che Vasilij Zbogar abbia fatto altrettanto usando la testa visto che il fisico 41enne del “vecchio” finnista non poteva competere con i ragazzi di quindici anni più giovani. “Non so proprio dove ho trovato le energie”, diceva ieri sera lo sloveno, così come Lange ringraziava i rivali più giovani per l’energia che gli hanno dato e la possibilità di imparare da chi è più agile. Carisma e umiltà sono nel dna dei grandi. Come in quel Giles Scott che, al di là di un fisico perfetto per il Finn, in mixed zone trasmette assoluta calma e controllo. Come in Tamara Echegoyen che, padrona della sua mente grazie a un lavoro specifico, ha allenato il muscolo mentale fino a trasmettere sorrisi da Mata Hari. Come in Robert Scheidt, che doveva vincere la medal race per sperare nella sesta medaglia e l’ha vinta, senza se, salvo poi constatare che non è bastato perché anche gli altri fanno a volte la loro parte.
Ancora un ultimo scalino da scalare, azzurri della vela, e poi ci potremmo essere. La forza mentale all’Olimpiade è tutto. Gli alibi sono zero. Esempi abbondano. Chiunque qui sa virare, strambare, volare sull’acqua o sfondare onde di quattro metri (che spettacolo di forza e orgoglio le regate dei Finn in oceano). La differenza la fa solo la capacità di farlo nell’unico momento in cui conta davvero. E questo, ne siamo convinti, tra quattro anni i ragazzi della vela italiana lo sapranno fare meglio di quanto sia capitato loro nelle acque inquinate ma assolutamente sincere della Guanabara Bay, a Rio de Janeiro, sede della XXXI edizione dell’Olimpiade dell’era moderna.